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La fine del XX secolo e del secondo millennio, questa prima decade del terzo sono dominate dalla tensione strabica di un doppio movimento: globalizzazione e tribalizzazione.
Da una parte lo sviluppo tecnologico, la telematica, tende ad unificare ogni tipo di produzione industriale ed artigianale, economia e cultura; una forte interdipendenza condiziona lo sviluppo della società, ponendola sotto il segno dell'omologazione ed anche del multiculturalismo. Un trend orizzontale guida le dinamiche produttive ed assottiglia i tentativi di differenziazione del prodotto e, conseguentemente, del relativo produttore.
La globalizzazione, che trasforma (come dice ironicamente Benjamin Barber) «il mondo in Mc Mondo», minaccia il carattere di identità, elimina il tentativo di personalizzare l’esistenza: una strutturale omologazione economica determina quella dei comportamenti. Ecco allora la risposta, spesso reazionaria e regressiva, della tribalizzazione, la ripresa dei nazionalismi, degli integralismi e dei valori di stanzialità: la regressione territoriale porta inevitabilmente al dominio della legge del sangue. Al macro-evento dello sviluppo tecnologico l'uomo risponde con il micro-evento della propria esistenza, legato alla resistenza stanziale ed
alla negazione dei minacciosi micro-eventi di altri individui limitrofi.
In questa divaricazione si situa la strategia di Zhang Yu, che afferma il diritto del proprio immaginario, sottratto alla logica del doppio estremismo: globalizzazione o tribalizzazione. Egli adotta la tattica del nomadismo culturale per sottrarsi alla perversa conseguenza dell'identità tribale. Nello stesso tempo rivendica una produzione del simbolico contro la mercificazione di un'economia ormai globale. In tal modo afferma il diritto alla diaspora, l'attraversamento multiculturale, transnazionale e multimediale. Si sottrae dunque a ogni logica di appartenenza attraverso una scelta di fondo che tende a negare il valore dello spazio, habitat e relativa antropologia circoscritta, a favore di un valore di tempo condensato nella forma dell'opera. Stoicamente questo artista sceglie liberamente un noma-dismo culturale. In tal senso l'opera acquista un valore utopico nel suo significato etimologico, la preferenza per un non-luogo, un altrove smaterializzato che non richiede stanzialità o definitiva occupazione.
Zhan Yu sviluppa con linguaggi diversi il concetto di decomposizione, il positivo affrancamento da un'unica opzione formale, l'affermazione dello slittamento e sconfinamento in opere complesse. Pittura, scultura, fotografia, video, musica, disegno e architettura si intrecciano nella produzione di installazioni che possono sostare in qualsiasi spazio, ma senza il pericolo di una totale integrazione. Il nomadismo e l'eclettismo stilistico che regge la forma aiuta l’affermarsi di una progressiva decomposizione quanto ad unità spaziale del momento produttivo e unità temporale di quello contemplativo.
L'opera funziona come un frullatore che crea interagenza tra i diversi linguaggi e smaterializza ogni tradizionale categoria estetica. Essa agisce sul pubblico con la forza estraniante di una realtà in movimento, con la capacità di affermare la propria mancanza di adesione e consenso.
Tale carattere è il frutto naturale di una tradizione che in Oriente e Occidente corre dalle avanguardie storiche fino alla Transavanguardia, la coscienza di un'autonomia dell'arte che non può operare sul principio dell'identificazione. L'arte contemporanea utilizza al meglio il superamento delle barriere tradizionali, per accedere alla rapidità di percorsi che giocano sul principio di contaminazione. Tale principio opera contro il pericolo dell'omologazione, frutto della globalizzazione telematica. Da una parte utilizza l'idea dello sconfinamento e dell'interagenza culturale e dall'altra afferma il diritto tutto individuale dell'artista di produrre forme improvvise e sorprendenti, conseguenti di un immaginario libero da ogni gerarchia.
L'arte opera su un ulteriore livello di decomposizione, in quanto afferma il valore creativo dell'IO contro quello quantitativo del NOI. Si presenta alla contemplazione del pubblico stanziale con le tracce del proprio movimento, i segni di un attraversamento che la rendono positivamente straniera rispetto alla familiarità delle immagini televisive che invadono quotidianamente lo spazio domestico della società di massa. Il nomadismo implica complessità di molteplici riferimenti, la memoria dei numerosi intrecci che sostengono l'artista, complessità di una forma progettata contro la semplificazione spettacolare di immagini bombardate dal piccolo schermo televisivo.
L'ambivalenza dell'opera costituisce il segnale resistenziale di questo artista contro la realtà che lo circonda, la formalizzazione di una ostilità di un'arte che non vuole svolgere alcun servizio informativo. Vuole anzi interrompere il trend di un universo funzionante sul mito dell'informazione. Eppure Zhan Yu si pone il problema della comunicazione, necessario riconoscimento dell'apparato telematico che controlla il mondo. Per questo assorbe dentro l'opera la diversità spuria di linguaggi differenziati, ma la plasma fuori da ogni logica di consumo immediato. Comunicare implica necessariamente l'adozione di tecniche e materiali non avulsi dal contesto in cui viviamo. Implica sottoporre il regime della forma a una disciplina capace di sviluppare un contatto con il pubblico. Ecco allora l'arte porsi il problema, dopo tanto isolamento: evitare il pericolo di un astratta globalizzazione, la fruizione internazionale del sistema dell'arte, favorendo una comunicazione bilanciata, fuori da ogni ammiccamento tribale.
Tale ammiccamento implica sempre appartenenza e l'idea di un consumo che intercetta in alcune forme artistiche la ricerca del consenso. Il bilanciamento della forma garantisce all'arte di non diventare puro oggetto d'uso, la possibilità di conservare un carattere di passaggio che segnala un viaggio accompagnato solo da piccole soste.
L'arte di fine secolo e del nuovo millennio deve necessariamente ribadire il valore del nomadismo, il destino di un inarrestabile movimento eccellente, per testimoniare la propria strutturale attitudine, destrutturante e strabica.
Solo così Zhan Yu, può dimostrare il credito che egli dà al tempo, surgelandone uno migliore in opere che evidenziano in maniera lampante ed esemplare la fiducia nella storia.
“Il Segno delle dita e’ un concetto. In genere i cinesi nati prima degli anni ‘60 pensano che sia una forma per firmare un contratto nella Cina del passato.
La firma del contratto dipende dall’impronta del dito sullo stesso. Qui sottolinea la sua importanza, come la vita umana. Qui contratto e’ un potere. Qui il segno delle dita e un simbolo.
Qui il concetto del segno delle dita e’ un’azione culturale che ha a che fare con il corpo.
La visione del segno della dita e’ il frutto di migliaia di segni rossi sulla carta di riso. Con la plasticita’ di questa carta, la forza delle dita cambia la struttura originale della carta, sulla superfice nascono sculture a forma di nido. Il fascino naturale della luce che entra e scioglie il senso originale del segno delle dita che acquisisce una materialita’ visiva.
Il segno della dita alla fine supera la forma e il concetto”.
Zhang Yu
Il tempo e lo spazio diventano dimensioni attraversate orizzontalmente dal segno, impronta del dito sulla superficie, e dalla sua capacità di misurare. Lo spazio è bidimensionale, appiattito nelle sue linee che corrispondono allo svolgimento lineare della dimensione temporale. Qui la linea disfa la circolarità della rappresentazione, scioglie ogni condensazione, a favore di una permutazione ininterrotta e decantata pienamente sulla superficie del quadro. Se il quadro è il ritaglio di uno spazio più ampio, anche il tempo è una sottrazione da un continuum, volta per volta, quadro per quadro, esperito e ineluttabilmente rimandato.
Il tempo è scandito dal ritmo che si succede su linee che lo iscrivono come movimento e come pausa. Il movimento è dato dal passaggio progressivo. Il quadro riporta anche la pausa, il vuoto, l’interstizio che passa tra due misure. Così il tempo è una dimensione temporale che accoglie contemporaneamente passato e presente, avvenire e avvenuto.
Tra pieno e vuoto, tra rumore e silenzio, tra impronta e pausa, il tempo iscrive la propria cifra totale, in quanto esso è somma di tutti i segni e di tutte le pause e la pausa contiene uno spazio ulteriore che è quello che fa da interstizio, anche mentale, tra un numero e l’altro.
Tra ripetizione e differenza Zhang Yu affida alla pausa il compito della ripetizione e all’impronta quello della differenza e viceversa, secondo il punto di vista spaziale oppure temporale. Comunque entrambi gli elementi sono assunti come unità di misura, contrappunti percettivi dell’invisibile scorrere del tempo.
Ora tempo e spazio si pongono tra loro in una posizione frontale differenziata: il tempo come virtualità dell’assenza (la pausa), lo spazio come presenza contestuale di flagranza e assenza. La pausa segue una sua ricorrenza geometrica che utilizza l’impronta come rumore che prepara il silenzio. Zhang Yu ha capito il senso profondo e drammatico del continuum temporale, la sua progressione che tende all’infinito, in quanto al di fuori della portata dell’esistenza dell’individuo. L’infinito è tutto ciò che non è misurabile attraverso la diretta esperienza, è il presente spostato continuamente in avanti e rimandato nella successività del quadro. “la sintesi del tempo costituisce il presente del tempo, e anche se il presente non è una dimensione del tempo, solo il presente esiste. La sintesi che costituisce quindi il tempo come presente vivente, e il passato e il futuro come dimensione di tale presente, è tuttavia intratemporale, il che significa che il presente passa. Certo si può concepire un presente perpetuo, un presente coestensivo al tempo, solo che si faccia convergere la contemplazione sull’infinito della successione di istanti. Ma tale presente non ha possibilità fisiche, in quanto la contrazione nella contemplazione opera sempre la qualificazione di un ordine, di ripetizione secondo elementi o casi, formando di necessità un presente di una certa durata, un presente che si esaurisce e passa, variabile secondo la specie, gli individui, gli organismi e le parti di organismo considerate” (G. Deleuze, Differenza e Ripetizione).
Nel lavoro di Zhang Yu ciò che veramente è sempre presente è la pausa, l’interstizio che separa il segno e gli permette di avanzare in avanti verso il futuro. E’ ciò che non è mai presente, in quanto non è mai costante nella propria quantità: esso diventa la differenza che attraversa lo spazio più che il tempo. Quando si mette ad andare incontro al tempo, allora anche l’impronta diventa ripetizione, poiché accede in un continuum irreversibile e inarrestabile.
In tal modo Zhang Yu dimostra come l’operazione del dipingere sia l’omologazione di uno stato antropico che tende all’infinito, nel senso che l’ultimo quadro non corrisponde mai al tempo ultimo ma soltanto all’istante dell’ultimo segno, succeduto dall’ultima pausa.
Yhang Yu conferma a capacità dell’arte di superare ogni convenzione confuciana in nome dello Zen e del Taoismo, affermando il valore della differenza, senza moralismi e nello stesso tempo partecipando al flusso collettivo della storia.
Achille Bonito Oliva
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